Aziende italiane negli USA: guida pratica al mercato americano

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L’ingresso nel mercato statunitense è tornato a essere un tema di notevole attualità per gran parte delle PMI italiane, a causa delle politiche commerciali internazionali di recente adottate dal Presidente USA Donald Trump. L’imposizione di dazi doganali simmetrici, e dunque potenzialmente molto più alti di quelli passati, e l’enfasi sul “buy American!” (“compra americano!”), hanno sottolineato l’importanza, se non addirittura la necessità, di attivare o consolidare la presenza diretta negli Stati Uniti. 

Peraltro, anche prescindendo dalla situazione geopolitica contingente, gli Stati Uniti rappresentano da sempre una destinazione primaria per l’espansione internazionale delle PMI italiane: nell’ultimo decennio, le esportazioni verso gli Stati Uniti sono aumentate di quasi il 70%, superando gli 80 miliardi di euro l’anno; gli Stati Uniti hanno così superato la Francia quale destinazione estera privilegiata per i prodotti e servizi italiani, ponendosi al secondo posto appena dopo la Germania, fatto che non accadeva dell’inizio degli anni ‘70 del secolo scorso. La presenza italiana negli Stati Uniti è già significativa, con oltre 3200 aziende che impiegano quasi 160 mila addetti. I settori trainanti sono, come ci si aspetta, agroalimentare e manifattura avanzata sia di componenti sia di macchinari, ma anche aerospazio, difesa, energia e biomedicale. Dal punto di vista degli Stati Uniti, vi è ancora ampio margine di crescita: gli investimenti diretti italiani sono inferiori all’1% del totale ricevuto, così ponendo l’Italia al 17mo posto tra i Paesi investitori. A questa prospettiva positiva si accompagna però la necessità di cautela: gli Stati Uniti sono e restano il mercato più grande del mondo, ma anche un mercato molto complesso e che presenta numerose differenze significative rispetto all’Italia e all’Europa. L’espansione internazionale negli Stati Uniti, se vuole essere la maggior prospettiva di successo, richiede dunque un’approfondita comprensione delle caratteristiche culturali, economiche, e normative specifiche di quel Paese.

Questo articolo riassume alcune di queste caratteristiche e differenze, si propone di identificare alcuni dei più comuni errori di prospettiva commessi guardando gli Stati Uniti e il popolo americano dall’Italia, e presenta alcune possibili strategie e scelte operative concrete per le PMI italiane che desiderino entrare, o se già presenti crescere, con maggior successo negli Stati Uniti. L’articolo si pone come punto di partenza per una riflessione e conversazione più approfondita da farsi, senza alcuna velleità di essere esaustivo o perenne: ogni caso è diverso, e l’economia internazionale è materia tanto complessa quanto sempre cangiante.

Differenze

Partiamo da quello che è forse il più significativo errore di prospettiva commesso, molto di frequente, dagli imprenditori italiani che si approcciano al mercato statunitense, specialmente per la prima volta: credere che gli Stati Uniti siano… “uniti”, nel senso di “omogenei e uniformi”. Con poche, e sia pur notevoli eccezioni, quali per esempio i settori della difesa e della medicina, gli Stati Uniti sono invece un mosaico complesso di aree regionali anche molto diverse tra loro per caratteristiche economiche, politiche, demografiche, infrastrutturali, culturali, e financo linguistiche. Come minimo, le strategie di ingresso e in seguito di espansione dovrebbero essere adattate a ciascuna macro area regionale: New England, Mid-Atlantic, Mid-West, South, West, Pacific Northwest. In aggiunta, qualche Stato, quale per esempio la California, merita attenzione particolare in forza delle dimensioni e struttura della sua economia, delle dinamiche sociali, della complessità normativa e della più significativa pressione fiscale e regolamentare.

Una seconda differenza significativa pertiene alla mera estensione del territorio, e alle conseguenze di natura infrastrutturale e logistica che da tale estensione derivano. Anche tralasciando gli stati dell’Alaska e delle Hawaii, e i vari territori e possedimenti quali Puerto Rico, Guam, eccetera, gli Stati Uniti cosiddetti continentali occupano un territorio molto vasto e, nel complesso, perlopiù spopolato. Ciò è particolarmente vero nelle regioni del Mid-West e del West, la cosiddetta “heart-land” (letteralmente tradotto: “terra del cuore”, stando a chi ci vive) oppure “fly-over country” (liberamente tradotto: “quella parte del Paese che serve solo a passarci sopra in aereo andando dalla costa est a quella ovest”, stando agli abitanti delle grandi città costali), la cui densità di popolazione è oltremodo bassa: stando al censo del 2020, ed escludendo la California, meno di 10 persone per km2, laddove la media in Italia è di quasi 200 persone per km2. Per esempio, lo stato del Wyoming, nella regione del West e noto ai più per il parco di Yellowstone, ha una superficie abitabile (di 253 mila km2) paragonabile con quella dell’Italia (di 301 mila km2), a fronte di una popolazione complessiva di meno di 600 mila abitanti. Per un italiano cresciuto dentro alla cosiddetta “misura d’uomo” del Bel Paese, dove venti chilometri possono portare in un’altra provincia molto differente per storia, cultura, economia, dialetto, cucina, ecc, tali enormi spazi (perlopiù vuoti) sono difficili da razionalizzare. Ciò di frequente porta le PMI italiane a entrare negli Stati Uniti rifugiandosi, almeno in prima battuta e più o meno inconsciamente, nelle aree regionali più simili all’Europa, quali per esempio il New England, o nelle grandi città costiere quali New York o Miami, non in base a fattori oggettivi di idoneità al proprio business, ma per familiarità emotiva. Tale scelta può avere senso in base alla tipologia di attività svolta, ma può far perdere (o quantomeno far ritardare significativamente) l’accesso privilegiato a una parte notevole dell’economia statunitense, ponendo la PMI in netto svantaggio rispetto ai concorrenti liberi da tale limitazione. 

Una terza importante differenza pertiene alla cultura del lavoro. Va premesso ovviamente che ragionare per medie, quando si parla di questioni afferenti all’umano, è un compromesso tanto necessario quanto ai limiti del buon gusto. Ciò premesso: se il lavoratore italiano medio (o quantomeno stereotipato) soffre il calvario del precariato perseguendo l’idolatria del cosiddetto “posto fisso”, il lavoratore americano medio (o quantomeno stereotipato) ha la mobilità tra le sue caratteristiche fondamentali. La durata media dei rapporti di lavoro privati negli Stati Uniti (3,5 anni) è notevolmente inferiore e quella in Italia (oltre 12 anni). Ciò dipende in parte dalla natura dei contratti di lavoro dipendente, che sono lasciati perlopiù alla volontà delle parti, in quasi totale assenza di contratti quadro, e che prevedono quasi sempre la possibilità, per il datore di lavoro, di interrompere liberamente il rapporto in qualsiasi momento. Ma la vera ragione della mobilità è la cultura del “darsi da fare” (in inglese americano: “to hustle”): gli americani sono sempre alla ricerca di nuove e migliori opportunità, ovunque esse siano, e vedono il rapporto di lavoro subordinato come perlopiù di natura transitoria e di breve-medio termine, anziché relazionale e, se possibile, di medio-lungo termine o a vita, come avviene invece più di frequente in Europa. Il lavoratore americano è generalmente disposto a cambiare non solo datore di lavoro, ma altresì settore economico e area geografica, nonché muoversi su grandi distanze. Ragionando sempre per medie, se in Italia è forse impensabile trasferire una fabbrica da Bergamo a Brescia senza rischiare una mezza rivoluzione, negli Stati Uniti è frequente vedere personale trasferirsi da uno stato all’altro, o persino “reinventarsi” cambiando completamente settore e carriera, al fine di inseguire una nuova opportunità ritenuta, magari anche solo marginalmente, un po’ migliore. 

Tale mobilità e visione transitoria del lavoro, così caratteristiche del personale americano, pongono una rilevante sfida alle PMI che desiderino creare negli Stati Uniti una forza lavoro ampia, stabile, fedele, e capace di accumulare competenze nel tempo. Come incentivare i lavoratori migliori a restare in azienda a lungo termine? Come contenere l’assenteismo, di norma anche di uno o due ordini di grandezza più significativo che in Italia? Come evitare l’emorragia di competenze, magari a beneficio di concorrenti? Invero le soluzioni a questi dilemmi esistono, ma sono predicate sulle caratteristiche proprie dei lavoratori statunitensi, non sull’applicazione acritica dei modelli operativi che “funzionano in Italia”. Va aggiunto che, dal punto di vista opposto, la mobilità rappresenta un’opportunità: fermo restando che esiste comunque sempre un beneficio connesso a stabilirsi presso i centri di eccellenza nel proprio settore, con i giusti incentivi negli Stati Uniti è possibile attrarre talenti provenienti da tutti gli Stati, pescando dunque da un bacino molto più ampio di quello meramente locale. 

Esistono inoltre numerose differenze normative, che esprimono ulteriore complessità. La più rilevante è la natura “consuetudinaria” del diritto, con l’assenza di un testo normativo di riferimento per il diritto civile e commerciale, quale è invece il Codice Civile in Italia. Ciò spiega perché i contratti statunitensi siano, di base, assai più corposi e complessi di quelli italiani: devono disciplinare esplicitamente tra le parti tutti quei casi che, in Italia, sono invece già codificati. In aggiunta, poiché gli Stati Uniti sono una federazione e non una nazione monolitica, manca un corpo normativo uniforme a livello nazionale, cui si sostituisce invece una stratificazione di leggi e regolamenti federali, statali e locali per contea, e anche talvolta per singola città. I vari livelli di tale stratificazione possono anche essere in conflitto tra loro. Per esempio, un contratto di distribuzione commerciale per punti vendita a New York City dovrà tenere in considerazione la legislazione e i regolamenti federali, dello stato di New York, del compatto delle cinque contee dei cosiddetti “Five Boroughs” (Manhattan, Kings County, Bronx County, Richmond County, e Queens County), e della città metropolitana di New York City. Si spiega così la complessità del documento risultante.

A tale complessità normativa si accompagna una simile complessità fiscale, sia in merito alle imposte (dirette e indirette) sia alle tasse e contributi. In aggiunta alla pressione fiscale federale, ogni Stato (e di nuovo, contea e/o città metropolitana) fa “repubblica a sé” perché, di fatto, nell’ordinamento federale, ogni Stato è davvero una repubblica a sé ancorché federata con gli altri stati dell’Unione. Per esempio, laddove in Italia vi sono 4 aliquote IVA a livello nazionale, negli Stati Uniti vi sono più di 12000 giurisdizioni fiscali e almeno altrettante aliquote per “Sales and Use Tax” (in breve: “SUT”). A tal proposito, vale la pena notare che l’IVA è un’imposta plurifase sul valore aggiunto, mentre la SUT è un’imposta monofase sul valore al consumo. Ciò significa, tra l’altro, che laddove l’IVA non è un costo per le aziende Italia, la SUT può essere (o non essere) un costo per le aziende americane, a seconda della destinazione d’uso (acquisto per uso finale, acquisto per uso quale fattore della produzione, acquisto al fine di rivendita ecc) dei prodotti o servizi acquistati, così aggiungendo ulteriore complessità del sistema. 

Vi sono ovviamente molte altre differenze. Alcune banali, quale per esempio l’uso di unità di misura SAE anziché metriche in alcuni settori – si pensi per esempio al passo in pollici dei tubi di gas e acqua, e alla rilevanza che questo può avere per un produttore di cucine. Alcune meno ovvie, quale per esempio la molto minore rilevanza negli Stati Uniti degli “aiuti ed agevolazioni di stato” per le PMI. Altre rilevanti anche solo in modo comparativo con l’Italia, quale per esempio il diverso, e di frequente molto maggiore, costo del personale, peraltro proprio per le figure chiave di un progetto di espansione – come spiegare al direttore vendite “mondo”, di base a Treviso e in azienda da vent’anni, che percepisce magari 90 mila euro di RAL, che il neoassunto direttore vendite “Americhe”, di base a Chicago, ha uno stipendio base (di mercato) di 200 mila dollari annui, più spese e provvigioni? E via moltiplicando. 

Quanto sin qui descritto dovrebbe però essere stato sufficiente a illustrare come gli Stati Uniti non siano un singolo e omogeneo mercato “estero”, accessibile con le stesse logiche applicabili a tutti gli altri, bensì un’opportunità tanto grande quanto complessa, che richiede attenzione particolare, strategie proprie, e l’assistenza di professionisti qualificati e con esperienza consolidata.

Suggerimenti

Viste le premesse sulla complessità del mercato statunitense, e l’ampia varietà delle attività economiche condotte dalle PMI italiane, è difficile proporre una soluzione unica per l’accesso o la crescita di successo negli Stati Uniti. Esistono però alcuni fattori comuni, mutuabili dalle esperienze, sia positive sia negative, accumulate dalle aziende italiane (e di altri Paesi) che hanno approcciato tale mercato.

La prima e forse più importante considerazione strategica è la modalità di ingresso. Quasi sempre da scartare è l’idea di affidare l’espansione statunitense al “responsabile estero” in Italia, in particolare se tale figura non ha esperienza pluriennale di vita e lavoro negli Stati Uniti. Come ripetuto più volte, il mercato statunitense è troppo complesso e diverso dall’Italia per essere “filo-guidato” con successo da oltre oceano, magari da chi non vi ha quasi mai messo piede. Di altresì difficile esecuzione è il meccanismo della joint-venture con operatori statunitensi: la joint-venture, di per sé, è sempre una strategia carica di conflitti di interessi, problemi di governance, e rischi finanziari e operativi. Tali aspetti negativi sono amplificati dalla distanza geografica, economica, legale, fiscale, culturale, e persino linguistica tra l’Italia e gli Stati Uniti. Per le stesse ragioni, la scelta di affidarsi a un distributore, per quanto seducente per l’apparente semplicità e il basso investimento iniziale in teoria richiesto, si è dimostrata di frequente essere destinata al fallimento, o quantomeno all’ottenimento di risultati insoddisfacenti e, non di rado, finisce con gravi danni alla reputazione del marchio rappresentato (male) dal distributore, comprensibilmente più interessato al proprio beneficio anziché a quello dell’imprenditore che vi si è affidato. In verità, l’uso di un distributore può ben avere senso per mercati esteri più piccoli e omogenei, e può in taluni casi funzionare anche negli Stati Uniti, specialmente se anziché un singolo distributore, scelto magari per simpatia, si opta per avere molteplici distributori regionali, scelti con cura sulla base di precisi criteri oggettivi, nonché gestiti tramite contratti chiari e ben scritti, secondo le logiche del diritto statunitense e non di quello italiano, al fine di allineare, e mantenere allineati nel tempo, gli interessi dei distributori a quelli dalla PMI. 

Senza dubbio, la modalità di ingresso più facilmente coronata da successo è la presenza diretta, commerciale e/o produttiva a seconda dei casi, che può essere attuata con la costituzione ex novo di una succursale o con l’acquisizione di una o più società già esistenti negli Stati Uniti. Tale modalità richiede senz’altro investimenti iniziali all’apparenza più significativi, ma permette di essere presenti, di conoscere e capire progressivamente meglio il mercato, di operare con margini più elevati, e soprattutto di mantenere il controllo del proprio marchio e della propria strategia aziendale, in assenza di conflitti di interesse, quasi inevitabili in presenza di una joint-venture o di distributore. Anche in questo caso è importante procedere per passi, con criteri precisi sia nella costituzione ex novo sia nella scelta del target per un’acquisizione, e con adeguata assistenza professionale negli Stati Uniti. 

Una seconda considerazione è la necessità di adattare l’offerta al fine di renderla più appetibile per i clienti statunitensi, che sono in generale abituati a logiche commerciali molto diverse da quelle comuni in Italia. Per esempio, non è inusuale che una PMI italiana dichiari di “saper fare tutto” nel proprio settore; vero o falso che sia, tale affermazione è diametralmente opposta alle aspettative, della maggior parte dei clienti negli Stati Uniti, i quali richiedono invece un’offerta precisa, strutturata, con chiara indicazione di quali sono i prodotti e servizi forniti, e altrettanto chiara indicazione dei relativi prezzi e politiche commerciali. Meccanismi di incentivo quali il finanziamento all’acquisto con credito al consumo (per beni di consumo) o leasing finanziario (per beni industriali), polizze assicurative integrative, piani di servizio post-vendita, e altro, sono infrequenti in Italia ma quasi sempre auspicabili negli Stati Uniti. Di converso, il “saper fare tutto” viene interpretato come mancanza di competenze verticali e rischio che il fornitore non sappia, invero, fare bene alcunché. 

Una terza considerazione è quella di fare le cose con calma, avviando il progetto di ingresso negli Stati Uniti anche 1-2 anni prima della data prevista per il lancio commerciale in pompa magna. Ciò perché, come già ricordato, il mercato o i mercati degli Stati Uniti sono complessi, e la strategia di ingresso, se vuole avere la miglior probabilità di successo, deve seguire criteri precisi nella selezione della modalità di accesso e delle eventuali controparti, e deve costruire numerosi fattori spesso assenti nella normale operatività in Italia. Creare la necessaria infrastruttura richiede tempo e lavoro e un approccio graduale che risolva tanti problemi, sia strategici sia pratici, passo per passo. Ragionando sempre per sommi capi, il suggerimento generale è dunque quello di aprire una società negli Stati Uniti quanto prima possibile, in relazione al piano di ingresso nel mercato. Tale società può, inizialmente, avere un organico anche molto limitato, se pur preferibilmente con almeno un dirigente americano, e assolve la funzione imprescindibile di stabilire una presenza credibile, iniziare a capire il mercato dall’interno ponendosi “da americani”, sia pure poco più che solo sulla carta, e non “da stranieri”. Si tratterà poi di incontrare clienti e altre controparti, di partecipare a eventi di settore, di analizzare le strategie attuate dai concorrenti, di affinare la propria offerta per renderla più appetibile ai clienti statunitensi, di predisporre al meglio la propria infrastruttura legale, logistica, operativa, e di servizio, di raccogliere i primi ordini, e via costruendo. Tutto ciò al fine di validare, o rivedere e migliorare, le ipotesi sottese alla propria strategia di ingresso negli Stati Uniti, man mano che la comprensione del mercato migliora. Così facendo, il rapporto tra benefici e rischi connessi all’ingresso è massimizzato. 

La complessa frammentazione del sistema statunitense richiede inoltre un approccio diverso anche alla consulenza professionale. In Italia, data la sostanziale omogeneità del sistema, la figura fondamentale è di frequente quella del “commercialista di fiducia”, professionista che è di frequente stato al fianco dell’imprenditore “da sempre”. Negli Stati Uniti, la realtà basilare, in assenza di un supporto adeguato in loco, è di dover orchestrare l’operato di un vasto coacervo di professionisti iperspecializzati, tra loro indipendenti e quasi sempre afflitti da scarsa comunicazione interdisciplinare. Ecco dunque il dilemma per l’imprenditore: da una parte, affidarsi alle grandissime aziende di consulenza mondiali, che sì hanno sedi sia in Italia sia negli Stati Uniti e che ragionevolmente possono asserire di capire entrambi i Paesi, ma con cui l’imprenditore non ha mai interagito e che hanno, di norma, costi completamente incompatibili con le capacità finanziarie o la volontà di investimento della PMI, per un progetto di internazionalizzazione ancora da realizzarsi; dall’altra, chiedere al suddetto commercialista di fiducia se “conosce qualcuno” con cui confrontarsi, magari un italiano di recente emigrato negli Stati Uniti nelle grandi città costiere, più facilmente comprensibili emotivamente, come sopra indicato, a prescindere dacché tale qualcuno sia o meno dotato delle necessarie competenze ed esperienze, con evidente grave rischio per il successo dell’espansione negli Stati Unti. 

Esiste una terza via, più difficile da identificare ma dimostrabilmente più foriera di successo: scegliere di lavorare con una società di consulenza statunitense specializzata nell’assistere PMI straniere che intendano espandersi negli Stati Uniti. Idealmente, tale società di consulenza dovrebbe soddisfare tutti i seguenti requisiti: 1) avere una dimensione media, idealmente con qualche decina di professionisti, così da essere “grande a sufficienza” da poter disporre di competenze interdisciplinari (strategiche, legali, amministrative, fiscali, operative ecc) e liberare l’imprenditore dall’incombenza di gestire molteplici controparti specializzate e, al contempo, “piccola a sufficienza” da trattare la PMI italiana come un cliente importante e da offrirle una struttura di costo ragionevole, meglio se in larga parte variabile in base ai risultati ottenuti; 2) disporre di professionisti sia statunitensi con esperienza internazionale sia stranieri che vivono negli Stati Uniti da molti anni, meglio anzi da qualche decennio, e se possibile nella cosiddetta “America vera” anziché nelle enclavi costali, e magari anche alcuni professionisti in Italia, così da poter credibilmente capire e far parlare in modo efficace i “due mondi” dell’Italia e degli Stati Uniti; 3) saper collaborare non solo con l’imprenditore, ma anche con gli altri consulenti storici della PMI, depositari di conoscenze imprescindibili, in modo relazionale anziché transazionale, al fine di creare anche negli Stati Uniti un rapporto fiduciario di lungo termine. Può sembrare utopistico, ma alcune società di questo tipo esistono, sia pure poche. 

Infine, un’ultima considerazione: le aziende italiane che arrivano meglio negli Stati Uniti sono quelle che partono meglio dall’Italia, quantomeno dal punto di vista formale. Nessuna azienda è perfetta, ma avere un governo societario stabile, una struttura dirigenziale ordinata e coesa, e un approccio sistemico agli affari legali in Italia permettono alla succursale statunitense di concentrarsi solo sull’ingresso negli Stati Uniti, e non soprattutto su come gestire i problemi irrisolti della casa madre. Da qui il suggerimento, forse controintuitivo nel contesto di internazionalizzazione, di fare ordine in Italia contestualmente al guardare all’estero verso gli Stati Uniti. 

Conclusione

In conclusione, gli Stati Uniti rappresentano, oggi più che mai, una straordinaria opportunità per le PMI italiane determinate a espandersi a livello internazionale. La complessità e le differenze rispetto al contesto italiano ed europeo non sono un ostacolo insormontabile ma piuttosto una sfida da affrontare con strategia, preparazione, e l’assistenza di professionisti qualificati. (foto di Raghavendra V. Konkathi su Unsplash)

Alberto Spangaro, Motu Novu Studio Legale Starl

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